Shar-i-Sokhta, Pompei d’Oriente
Probabilmente pochi sanno che in Iran, nella provincia orientale del Paese, nel Sistan-va-Baluchistan esiste un luogo chiamato Shar-i-Sokhta, un vero e proprio “eldorado archeologico”, iscritto nella lista World Heritage dell’Unesco e conosciuto anche come la “Pompei d’Oriente”, un luogo che oltre seimila anni fa rappresentava il punto d’incontro di diverse civiltà, il primo esempio di melting-pot asiatico.
Oggi questo sito archeologico è divenuto anche simbolo della cooperazione tra Italia e Iran, un eterno ponte di collegamento tra culture diverse: Shahr-i Sokhta è infatti oggetto, dal 2016, di interventi di ricerca e scavo da parte di una Missione internazionale cui partecipa il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento con le attività dei Laboratori di “Topografia antica e fotogrammetria”, “Antropologia fisica”, “Paleobotanica e paleoecologia” e “Archeozoologia”.
Il sito di Shahr-i Sokhta, che sorge tra l’inospitale deserto del Lut e le alture del Baluchistan, rappresenta uno dei centri più ambiti per l’indagine archeologica, sia per essere perfettamente conservato a causa di concrezioni saline presenti su tutta la superficie che hanno sigillato reperti e strutture del sottosuolo, sia per essere stato spesso associato, dalla letteratura archeologica, alla mitologica Aratta che, localizzata dai testi mesopotamici “dove sorge il sole”, rivaleggiò con i sovrani della I Dinastia di Uruk (tra cui si ricorda Gilgamesh), padroni del Sumer e depositari della regalità dopo il Diluvio.
Proprio il Diluvio avrebbe messo fine a una serie di dinastie dall’irreale longevità per permettere, successivamente, che la regalità potesse “scendere dal cielo” prima nella città di Kish, e poi, appunto, in quella di Uruk. Il Diluvio sumerico, i cui racconti hanno ispirato i redattori del racconto biblico, quindi, è inteso come elemento di separazione tra un tempo mitico e quello storico; un tempo, quello post-diluviano, in cui la storia viene fatta da re, che l’indagine archeologica ha in parte riconosciuto, e da città, che il progetto sta indagando.
In particolare, Aratta, citata nei maggiori poemi sumerici (tra cui “Enmerkar e il signore di Aratta”, “Enmerkar ed Ensuhkeshdanna”, “Lugalbanda e l’uccello Anzu”, e nello stesso poema di Gilgamesh), è presentata come un posto lontano e difficile da raggiungere, favolosamente ricco, pieno di oro, argento, lapislazzuli e numerosi altri materiali preziosi. La città è anche presentata come la sede della dea Inanna, alla quale fu dedicato un tempio completamente costruito di lapislazzuli; le vicissitudini della città con i re sumerici indurranno la dea a scegliere Uruk, centro della Mesopotamia meridionale, come propria residenza, consegnando la regalità al Sumer e alla dinastia fondata da Enmerkar e continuata con Lugalbanda e il mitologico Gilgamesh.
Il ricordo della città rimarrà vivo nella letteratura mesopotamica tanto da essere ricordata nei poemi di Shulgi, re di Ur, e in altri testi paleobabilonesi approssimativamente datati al XIX secolo a.C.
In attesa di trovare conferme sull’identificazione del sito, i rinvenimenti effettuati negli ultimi 23 anni dalla missione iraniana di
Mansur Sajjadi e dal nuovo progetto di Enrico Ascalone nella cosiddetta “Pompei d’Oriente” hanno confermato l’eccezionalità di Shahr-i Sokhta che, sebbene depositaria di un percorso autonomo di crescita, sorge a cavallo tra le quattro grandi civiltà fluviali (Oxus, Indo, Tigri-Eufrate e Halil), dell’Asia Media, Centrale e Meridionale: quella sumerica, i cui legami letterari confluiscono nella mitologia; quella di Jiroft, culla di una nuova e dimenticata civiltà fino al 2003; quella dei grandi centri dell’Asia Centrale; quella dei grandi insediamenti di Harappa e Mohenjo-daro, con cui Shahr-i Sokhta intrattenne rapporti a vario livello.
Shahr-i Sokhta, la cui estensione è di circa 200 ettari, da una parte ha mostrato processi di crescita locale ben radicati nel tessuto culturale del Sistan iraniano e, dall’altra, tra il secondo quarto del III e l’inizio del II millennio a.C. ha restituito straordinarie evidenze di un ‘long-distance trade’ tra i principali centri del Vicino Oriente.
In particolare, le evidenze di attività manifatturiere nell’insediamento e la scoperta di ingenti quantitativi di pietre non lavorate semi-preziose come lapislazzuli, turchese, alabastro e altro hanno permesso di riconoscere, nel centro del Sistan, un’area di approdo, stoccaggio, lavorazione e redistribuzione del materiale destinato per un fabbisogno interno e per un domanda esterna da riconoscersi nelle oasi dell’Oxus, nelle fertili valli dello Halil (Jiroft), nelle pianure della valle dell’Indo e nelle aree alluvionali mesopotamiche, le cui evidenze archeologiche provenienti dai maggiori centri del sud (Ur), della Diyala (Khafaja), del medio corso dell’Eufrate (Mari) e dell’Alta Mesopotamia (Tepe Gawra), assieme a quelle della Siria Interna (Ebla), risultano decisive per confermare la presenza di due maggiori itinerari commerciali che sfruttarono, a nord, la via del Khorasan (ben conosciuta dai più tardi testi dei geografi arabi) e, a sud, la via marittima del Golfo Persico che, a partire dalla seconda metà del III millennio a.C., gradualmente sostituirà l’arteria settentrionale.
Con la fine del III millennio a.C. la floridità del maggiore centro del Sistan dovette scomparire progressivamente e improvvisamente, per cause perlopiù misteriose che coinvolsero i maggiori centri di tutta l’Asia Media. Shahr-i Sokhta, come i maggiori centri della civiltà Harappana, cesserà la propria esistenza colpita da una crisi che la ricerca archeologica tende a spiegare, non senza incertezza, con un radicale e repentino cambiamento climatico che avrebbe colpito quei centri, la cui sussistenza risiedeva principalmente nelle risorse idriche della regione.
I più recenti studi hanno raccolto dati che cambiano la cronologia del centro di Shahr-i Sokhta, restituendogli una nuova sequenza stratigrafica e cronologica che “alza” la vita dell’abitato di circa 3/4 secoli. Significative evidenze fanno pensare che il sito si comportasse come un centro dalla struttura eterarchica: gruppi clanici di origini tribali dissimili convissero in uno stato di equilibrio sociale in cui gli aspetti gerarchici furono destinati solo all’interno di ogni singolo gruppo, in un regime di equilibrio economico dettato verosimilmente dalla prosperità che il centro dovette avere durante la prima metà del III millennio a.C.
Questa eterogeneità, basata su un complessivo equilibrio sociale interno al clan e tra gruppi, impedì la centralizzazione delle risorse dell’insediamento e con esse il sorgere di una classe dominante sul sito e nella sua regione; un passaggio mancato che non produsse una centralizzazione amministrativa e la standardizzazione degli strumenti generalmente usati per il controllo delle realtà economiche su larga scala. Anche le recenti straordinarie scoperte di centinaia di proto-tavolette in argilla, usate per la registrazione contabile all’interno di singoli edifici, devono essere considerate forme di contabilità amministrativa di matrice famigliare, destinate al calcolo e alla gestione del surplus economico prodotto.
Il sito e i risultati raggiunti nel corso degli scavi e delle ricerche, sono stati presentati nei giorni scorsi nel corso di una conferenza internazionale online organizzata dall’Università del Salento, alla presenza del Rettore UniSalento Fabio Pollice, dell’Ambasciatore italiano nella Repubblica Islamica dell’Iran Giuseppe Perrone, dell’Ambasciatore della Repubblica Islamica dell’Iran in Italia Hamid Bayat, del Direttore dell’Iranian Cultural Institute Taghi Amini, del Direttore della Scuola di specializzazione in Beni archeologici “Dinu Adamesteanu” dell’Università del Salento Gianluca Tagliamonte e del Direttore del Dipartimento di Beni culturali UniSalento Raffaele Casciaro.
Nel corso dell’incontro, sono stati inoltre illustrati i risultati delle ricerche raccolti nel volume “Scavi e ricerche a Shahr-i Sokhta” (Studies and publications Institute, Pishin Pajouh, Tehran), curato dal Direttore del progetto MAIPS Enrico Ascalone dell’Università di Göttingen e da Seyyed Mansur Seyyed Sajjadi dell’Iranian Center for Archaeological Research, direttore del progetto archeologico di Shahr-i Sokhta e Dahan-ye Qolaman dal 1997.
Le attività di ricerca dei Laboratori del Dipartimento di Beni culturali dell’Università del Salento sono stati illustrati dai rispetti Direttori: Giuseppe Ceraudo (Topografia antica e fotogrammetria), Pier Francesco Fabbri (Antropologia fisica), Girolamo Fiorentino (Paleobotanica e paleoecologia) e Claudia Minniti (Archeozoologia).
“La collaborazione internazionale è fondamentale per la valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale – ha sottolineato il Rettore dell’Università del Salento Fabio Pollice – e lo diventa ancor di più quando questo patrimonio è riconosciuto come eredità dell’intero genere umano. Di qui il nostro impegno nella Repubblica Islamica dell’Iran, teso a restituire a quel Paese e all’umanità intera la storia di un territorio che è stata la culla di una delle più grandi civiltà del passato”.