Il nostro anno in pandemia
E’ trascorso un anno da quando tutta Italia ha dovuto assistere a qualcosa che mai avrebbe immaginato di vedere: camion dell’esercito che portano via i feretri dalla città di Bergamo.
La popolazione intera è rimasta pietrificata davanti a quelle immagini trasmesse da tutti i telegiornali, pubblicate sui giornali, inviate come un tam tam sui cellulari di tutti noi. Immagini che, a poco meno di un mese dall’inizio ufficiale della pandemia in Italia, hanno sbattutto in faccia a tutti, compresi quelli che “tanto è solo un’influenza”, la gravità di quanto stava accadendo. Quelle bare portate fuori regione perchè il forno crematorio locale non riusciva a smaltirle.
Era il 18 marzo 2020, oggi, un anno dopo, il 18 marzo è ufficialmente la giornata nazionale in memoria delle vittime del Coronavirus. E oggi, alla presenza del sindaco bergamasco Giorgio Gori e del neopresidente del Consiglio Mario Draghi, al parco della Trucca, accanto all’ospedale Papa Giovanni XXIII, simbolo della pandemia italiana, hanno piantato i primi 100 alberi creando un simbolico Parco della Memoria. Un parco della memoria che ricorderà a tutti i cittadini orobici, ma no solo, in quanti hanno perso la vita e, ahimé, quanti ancora la perderanno.
A distanza di un anno i feretri sono aumentati esponenzialmente: oltre 102.000 e ognuno di noi è cambiato, ha dento sé qualcosa che porterà per sempre. Molti hanno la gioia di essere sopravvissuti, tanti il trauma per quanto visto e sentito durante il ricovero in reparti che neanche su Marte, moltissimi piangono un membro della famiglia e tutti porteremo per sempre dentro la paura. La paura di qualcosa di tanto letale quanto invisibile.
Ed è con quella paura che abbiamo trascorso questi mesi, con momenti bui ed altri un pò meno, con un lumicino di speranza quando i numeri dei contagi sembravano scendere, una parvenza di normalità durante l’estate e poi di nuovo tutti in caduta libera.
Ogni famiglia si è trovata a vivere una nuova realtà, a costruire un nuovo equilibrio, a stare lontana dai propri cari.
Era il 21 febbraio, io e la mia famiglia eravamo a Barcellona e dall’Italia amici medici ci chiamavano chiedendoci di cercare mascherine “Tizi ffp2 mi raccomando” era la loro precisazione. Ma di mascherine nella città catalana nemmeno l’ombra e noi, con un pò di superficialità abbiamo girato per quattro giorni senza immaginare quanto sarebbe accaduto a breve.
Rientrati al termine delle vacanze di Carnevale a Bergamo, si proprio nella città simbolo del Coronavirus in Italia, le prime notizie inizano ad arrivare e quella che più ci colpisce è “per questa settimana le scuole non riapriranno“. Da quel 26 febbraio si sono susseguite molte circolari che annunciavano la proroga della chiusura della scuola. Una scuola che, per quell’anno, non ha mai più riaperto.
E così ogni famiglia ha dovuto riorganizzarsi: noi abbiamo creato una tabella con le attività settimanali, il tempo per lo studio, per la lettura, per lo sport con la wii, per la creatività, per i giochi in famiglia e per la Play Station. Abbiamo preparato ogni settimana cene dal sapore straniero per fingere di viaggiare da un Paese all’altro, seguito le lezioni a distanza, cucinato, fatto cartelloni, tornei di carte, giocato in cortile, lavorato in orari improbabili e preparato una postazione per il papà che al rientro dal lavoro usava per depositare tutti i suoi indumenti.
Con i giorni la paura di essere contagiati aumentava: molti vicini di casa ammalati, genitori non più giovani che erano la fascia più a rischio, spese online, videochiamate, pranzi in Skype, feste di compleanno virtuali, l’attesissimo bolletino quotidiano delle 18, dirette su Instagram. Il tutto con il sottofondo costante delle sirene delle ambulanze. Un suono che nessuno di noi potrà mai dimenticare così come quella sensazione di ansia che ogni mattina al risveglio ci accompagnava: accendere lo smartphone e leggere i messaggi degli amici che annunciavano una morte.
Poi la lenta riapertura, i numeri dei contagi che dimuivano più velocemente del numero dei morti “ma questo sarà l’ultimo numero a diminuire” dicevano gli esperti. Ricordo perfettamente quel lunedì 4 maggio quando alle 6 del mattino, dopo più di tre mesi, ho varcato la soglia di casa per una passeggiata nella mia martoriata città. Un giro lungo, città bassa e poi città alta; un giro intenso fatto di sorrisi nascosti dalle mascherine con le persone che incrociavo. Un giro necessario per riossigenare corpo e mente con nel cuore il pensiero che “andrà tutto bene“.
Ma oggi possiamo dire che, no, non è andato tutto bene. Abbiamo i vaccini ed è una cosa incredibile che in così poco tempo siano stati prodotti ma siamo ancora in alto mare: i contagi sono altissimi e i morti superano i 400. La strada è ancora lunga ma non dobbiamo perdere coraggio e speranza perchè prima o poi vinceremo noi. Sarà una vittoria di Pirro, è certo, ma sarà una vittoria.